Una moderna Biancaneve in scena a Lecce, Cantieri teatrali Koreja
15\04\2012 - TG8 servizio a cura di Annalisa Manico.
“C’era una volta un’adolescente che, per motivi di famiglia, scappò di casa per fare da badante a sette uomini di bassa statura fino a quando, scampata a tre tentativi di omicidio ad opera di una sua parente acquisita, ebbe la fortuna di ritrovarsi sposa di un principe, con il quale visse felice e contenta”.
Parte da qui, dall’ossatura della favola di Biancaneve, la favola per antonomasia e, per questo, la più esplicita nei suoi ingranaggi morfologici, il lavoro di riscrittura per sovrapposizione di VANITY FAIR’S SNOW WHITE, il nuovo progetto di teatro fisico firmato Collettivo PirateJenny e presentato ieri sera presso i Cantieri Teatrali Koreja.
Da un non-tempo, in un non-luogo, molto simile a un percorso a caselle di un gioco da tavola, si muovono 3 non-personaggi, dai ruoli arbitrari e interscambiabili, ognuno dei quali portavoce di un punto di vista in continuo slittamento.
Perché una storia che si tramanda trova un passaggio obbligato nel filtro della soggettività, dal quale ne può venir fuori mutila, stratificata, ribaltata, adulterata , o può non uscirne affatto, lasciando dietro di sé il suo strascico di vittime.
Il corpo in movimento diventa il profilo dell’atto del Raccontare, un filo narrativo che si disfa e si dipana, si dilata e si contrae, si moltiplica all’infinito, fino alla collisione, al cortocircuito, fino a sfibrarsi, fino a quando “non distingui chi percorre, chi è percorso o chi percorre cosa …”
Vanity Fair’s Snow White dimostra quanto l’atto della Narrare non sia (coscientemente o meno ) un atto innocente, perché c’è sempre qualcuno che ci rimette, qualcuno che ci guadagna, qualcuno che ne approfitta.
L’ironia crudele, il gioco non ingenuo, la riflessione intima mai fine a se stessa, la collaborazione democratica dei linguaggi artistici sono il marchio di fabbrica del Collettivo PirateJenny, nato a Milano dall’incontro di tre giovani creativi e
performer: Elisa Ferrari, Sara Catellani e il salentino Davide Manico.
Ieri sera in scena, con Manico e la Catellani, anche il prezioso contributo di Alice Guazzotti.
La Direzione musicale e le musiche originali di un altro salentino, il compositore epercussionista Dario Congedo.
Biancaneve e le brame dell'Italietta, la matrigna cattiva
26\02\2012 Il Paese nuovo
di Luisa Ruggio

"Biancaneve prima di essere Biancaneve, ovvero la favola che tutti conosciamo. Travestirsi da buoni o da cattivi nel piccolo mondo moderno di Internet, giocare un sogno latente, fatto di ruoli assegnati e discorsi leggibili in base alla grammatica interiore. Così “Vanity Fair Snow White” del Collettivo Pirate Jenny, sottolinea fin dal titolo che l’adattamento di una vecchia storia risente di un influsso preponderante, del resto è la poetica dei coautori dell’opera: la complessità del vero, i giochi di ruolo somatizzati e spinti al limite. Nessuna introduzione in questa nuova pagina di teatro-danza, a scena aperta comincia la conta attraverso una di quelle filastrocche tanto care ai bambini e al filone dei romanzieri ossessionati da quel tipo di conflitto che ha radici nelle prime partite d’infanzia, quando a turno si è guardiani, ladri, carnefici, vittime, principesse o matrigne. Quei cattivi ragazzi, un continuum che connota la dimensione esistenziale dei coprotagonisti in scena - figli di una filosofia ammaccata, ma soprattutto figli di un FUS minore (Fondo Unico per lo Spettacolo) - rimediando uno spirito critico caricaturale, pieno di riferimenti geniali alla comunicazione isterica ai tempi di Facebook. “I like solo cavalli bianchi”, “Mi piace Bare di cristallo”, intercala così il testo inedito che frammenta la coreutica di questo lavoro in fase di elaborazione. Sta per fare tappa anche a Lecce “Vanity Fair Snow White” (il 14 aprile in scena ai Cantieri Teatrali Koreja per la rassegna “Affinità Elettive”) dopo essere passato attraverso la cruna – parecchio stretta, va detto - dell’ago del Premio Equilibrio 2012, a Roma, in quanto progetto finalista insieme ad altri tentativi della nuova Danza italiana. Del Collettivo Pirate Jenny composto dalle danzatrici Sara Catellani ed Elisa Ferrari fa parte anche il danzatore e coreografo salentino Davide Manico che insieme alle coautrici del progetto ha voluto in scena il compositore delle musiche originali di “Vanity Fair Snow White”, un altro salentino, il musicista Dario Congedo. Lo spazio scenico è un caleidoscopio nelle mani dei danzatori-attori, qual è il ruolo del Collettivo Pirate Jenny? Si contrappone forse a quel che resta della famiglia, il primo gioco di ruolo al quale sopravvivere, malgrado tutto. Qui Biancaneve (Snow White) smette di essere l’eroina disperata, il Collettivo libera per lo spettatore l’accesso a una dimensione attuale dove a stimolare l’identificazione delle nostre parti peggiori, volutamente ridicolizzate dagli autori, è la condizione diversamente esasperata degli artisti in scena. La solitudine dei danzatori in un Paese per vecchi fa parte, a ben vedere, di una deriva culturale intollerabile che l’Italia rischia di pagare mandando troppe carriere ad abortire le idee che non si reggono solo con l’auto-promozione. La nuova Danza é troppo maltrattata, incastrata tra l’incudine e il martello delle onnipotenze dei dinosauri e la mancanza di fondi per finanziare i progetti. Davide Manico è tra gli instancabili militanti danzatori che hanno tentato di proporre qualcosa di nuovo, per il secondo anno consecutivo, al Premio Equilibrio. Un Premio che però non ha ricambiato la cortesia, la giuria dell’edizione 2012 infatti ha deciso di non premiare nessuno dei progetti finalisti, mettendo da parte il finanziamento in palio per l’edizione dell’anno prossimo. Una scelta insindacabile, lo prevede persino il regolamento, tuttavia infelice in tempi di crisi poco benevoli con i destini dei precari della Danza, un’intera specie di indignati che vivono sulla propria pelle – tanto quanto altri onesti lavoratori e quindi in cerca del riconoscimento di una pari dignità – la scissione tra la creatività e una tradizione autoritaria, cinica, che li mortifica. L’Italietta è la matrigna cattiva, sotto lo specchio delle brame di una critica delle professioni artistiche spesso superficiale, rischiano di soccombere germogli di intuizioni fondate su una condizione primaria: la fragilità di chi deve ancora crescere. E’ frustrante, roba da resistenti, gente capace di riderci sopra sebben che sia alla frutta. Anche di questo racconta il nuovo lavoro del Collettivo Pirate Jenny, la tragedia è presente dietro il ritmo da battutisti di razza, ma con una leggerezza che se fosse un libro l’avrebbe scritto uno come Richler, oppure Fante. Ha qualcosa “Vanity Fair Snow White” che se ne frega del bello scrivere per il corpo, la risata che ne deriva è un postscriptum che a spettacolo finito ti resta in mente per giorni, perché esce fuori da certi schemi e finisce in mezzo alla vita qualunque. Creando, cos’altro si dovrebbe fare?" link: http://www.ilpaesenuovo.it/index.php/cultura/lecce/30847-qbiancaneve-e-le-trame-dellitalietta-la-matrigna-cattivaq.html
Un coreografo salentino finalista al Premio Equilibrio 2012
3\01\2012 il Paese Nuovo.it
di Luisa Ruggio

MONTERONI (Lecce) - Ha firmato le sue prime opere di teatrodanza mettendo in piedi la Compagnia Terra di Nod e fondando, poi, insieme a due altre danzatrici di razza, Elisa Ferrari e Sara Catellani, il Collettivo Pirate Jenny (dal nome dalla celebre Canzone Di Jenny Dei Pirati che fu scritta da Bertolt Brecht e composta da Kurt Weill per “L’Opera da tre soldi”) che ora, con l’inedito “Vanity Fair’s Snow White” è finalista alla notte degli oscar della Danza Contemporanea, ovvero il Premio Equilibrio 2012.
Lontano dal Salento, dove continua ad essere un semi-sconosciuto che solo l’anno scorso - dopo anni di ricerca - è riuscito a tornare a danzare nella sua città, più di qualcuno ama il suo lavoro che sembra aver ereditato e metabolizzato la lezione di Pina Bausch.
La sua danza siamo noi, il suo nome è Davide Manico. Nel sito ufficiale del Collettivo Pirate Jenny è leggibile un’anticipazioni su quelli che saranno i temi caldi del nuovo progetto di riscrittura per sovrapposizione, “Vanity Fair’s Snow White” : una cover, per così dire, della favola di Biancaneve. “C’era una volta un’adolescente che, per motivi di famiglia, scappò di casa per fare da badante a sette uomini di bassa statura fino a quando, - annuncia il Collettivo - scampata a tre tentativi di omicidio ad opera di una sua parente acquisita, ebbe la fortuna di ritrovarsi sposa di un principe con il quale visse felice e contenta”.
Un ragionamento danzato sul tramandare storie andrà in scena negli spazi dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, nell’ambito del Premio Equilibrio e poi in tour, “Tramandare una storia – spiega Davide Manico insieme a Elisa Ferrari e Sara Catellani - implica inevitabilmente un nuovo atto di creazione. Vuol dire omettere, sintetizzare, ingigantire, enfatizzare e queste non sono operazioni innocue. Ogni storia ha il suo strascico di vittime. Quando più punti di vista vengono a contatto l’impatto può rivelarsi violento.
Ogni porzione di reale versata nell’imbuto di un punto di vista perde definizione e, in questa wunderkammer dalla pixelatura grossolana, si sovrappongono strati di prospettive che restituiscono una realtà dalla struttura fluida, instabile, pericolante e a volte inagibile”. Se c’è un modo per trasformare un segno, una condizione di continua partenza, perdita, incomunicabilità e tutta la diaristica marginale del genere umano in movimento, quello è il modo di Davide Manico.
Lontano dal Salento, dove continua ad essere un semi-sconosciuto che solo l’anno scorso - dopo anni di ricerca - è riuscito a tornare a danzare nella sua città, più di qualcuno ama il suo lavoro che sembra aver ereditato e metabolizzato la lezione di Pina Bausch.
La sua danza siamo noi, il suo nome è Davide Manico. Nel sito ufficiale del Collettivo Pirate Jenny è leggibile un’anticipazioni su quelli che saranno i temi caldi del nuovo progetto di riscrittura per sovrapposizione, “Vanity Fair’s Snow White” : una cover, per così dire, della favola di Biancaneve. “C’era una volta un’adolescente che, per motivi di famiglia, scappò di casa per fare da badante a sette uomini di bassa statura fino a quando, - annuncia il Collettivo - scampata a tre tentativi di omicidio ad opera di una sua parente acquisita, ebbe la fortuna di ritrovarsi sposa di un principe con il quale visse felice e contenta”.
Un ragionamento danzato sul tramandare storie andrà in scena negli spazi dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, nell’ambito del Premio Equilibrio e poi in tour, “Tramandare una storia – spiega Davide Manico insieme a Elisa Ferrari e Sara Catellani - implica inevitabilmente un nuovo atto di creazione. Vuol dire omettere, sintetizzare, ingigantire, enfatizzare e queste non sono operazioni innocue. Ogni storia ha il suo strascico di vittime. Quando più punti di vista vengono a contatto l’impatto può rivelarsi violento.
Ogni porzione di reale versata nell’imbuto di un punto di vista perde definizione e, in questa wunderkammer dalla pixelatura grossolana, si sovrappongono strati di prospettive che restituiscono una realtà dalla struttura fluida, instabile, pericolante e a volte inagibile”. Se c’è un modo per trasformare un segno, una condizione di continua partenza, perdita, incomunicabilità e tutta la diaristica marginale del genere umano in movimento, quello è il modo di Davide Manico.
Nitido e Campioncini, in scena a Lecce la confraternita delle buone idee.
7\08\2011 - TG8 servizio a cura di Luisa Ruggio.

L’illimitato della relazione con l’altro, tra dono e scambio, tra immagini e movimento è il terreno friabile sul quale poggiano due ricerche differenti per orientamento e intenzioni. Si tratta di due performance che hanno fatto tappa a Lecce, nell’ambito della rassegna Fiori di testa e Mediterranea. In scena, negli spazi del Teatro Romano, il Collettivo Opera di Polvere con “Ni(ti)do” firmato da Sara Catellani eFrancesca Pellanda e, a seguire, il Collettivo Pirate Jenny, con “Campioncini” firmato da Elisa Ferrarie il coreografo e danzatore salentino Davide Manico.
Nel primo caso, ripercorrendo alcune caratteristiche dell’esperienza addirittura morfologica e che determina dinamiche nelle future “culture” relazionari tra i sessi, il Collettivo Opera di Polvere indaga una finzione pericolosa, destinata, una volta perduto il paradiso di ogni inizio, a produrre bruschi cortocircuiti.
Sara Catellani e Francesca Pellanda, intense ed eleganti, vestono i panni di due forzature ridotte a una derivazione della favola di Cappuccetto Rosso. Le bambine-donne interagiscono in modalità carillon, segnando il loro percorso intorno a una casa di bambole, tendendo fili che diventano rete, nido e trappola, una serie di implicazioni difficili da negoziare e che attendono il loro riconoscimento senza enunciarlo. Luci e ombre sono sollecitate dalla qualità del movimento che Catellani e Pellanda non abbandonano, in barba a un minimalismo fin troppo prudente e che negli ultimi anni ha svuotato la scena di storie e derivati. In questa prospettiva, “Ni(ti)do” si impone con una sua generosità evidente frutto dell’incontro di due danzatrici ispirate, di formazione italiana ed estera.
Due linguaggi coreografici e un obiettivo multidisciplinare che in “Ni(ti)do” si avvale del video diFrancesco Domenico D’Auria e Walter Magri oltre alle scene di Massimo Corsini e Gabriele Bosio.
La domanda che il Collettivo pone allo spettatore riguarda i luoghi e il tempo. “Cosa significa oggi, per una giovane donna, crearsi uno spazio sicuro?”, ed è una domanda che ha radici nella biografia, geograficamente movimentata, delle due giovani danzatrici da tempo proiettate lontano dai loro nidi d’origine, Francesca Pellanda è tra gli artisti italiani che vivono sotto il cielo di Berlino. Ma basti pensare al mestiere itinerante del performer per farsi un’idea di mobilità ancora diversa, e più invasiva, di quella cui il mondo del lavoro ha costretto l’ennesima generazione perduta di trentenni italiani. Il senso di “Ni(ti)do” non è lontano da questa dualità ontologica tra aspettative (indotte) e modi di vivere, adattamenti. Il sequel quasi naturale di questo ragionamento è parso, in scena, a Lecce, “Campioncini”, provocazione sulle conseguenze di questo adattarsi umano e disumano. E il dibattito, imbastito dal Collettivo Pirate Jenny, va al di là degli interrogativi generati dalla reciprocità di maschile e femminile, ne sottolinea le dissimmetrie ai limiti del patologico attraverso il ricalcare certi canoni perfettini. Non a caso il Collettivo Pirate Jenny prende il nome dalla canzone scritta da Bertolt Brecht per l’Opera da tre soldi. Il teatro-danza è la dimensione che muove il linguaggio irresistibile di Davide Manico ed Elisa Ferrari, figli di un guizzo che non può non far pensare a un impegno preso con la complessità del contemporaneo, la scena stessa delle nostre vite incrinate dal continuo tetris delle tragedie moderne, cerchi di confronto pericolosi nei quali il corpo è chiamato a resistere come un’altra utilitaria. Un’utilitaria che si pronuncia però attraverso i testi di Annalisa Manico e lo stesso Collettivo, testi che costituiscono una risorsa per lo spettatore e che sollecitano ragionamenti ben equilibrati sul filo di lama di un sarcasmo pungente. Per Davide Manico, la parola in scena non è solo un supplemento del corpo, ne deriva la sua dimensione creativa che oggettivizza la priorità di un diritto che l’intero mondo delle Arti in questo Paese sembra aver dimenticato, è la cara vecchia lezione del Cinema Neorealista, delle Commedie all’italiana, dei capocomici capaci di scandagliare il Costume e farne una condizione prima, Pop, del riconoscimento elementare delle qualità (e non) dell’uomo/Ken e della donna/Barbie che hanno finito col guadagnarsi la cacciata dal Paradiso terrestre per aver dimenticato di calcolare le calorie di un pasto.
Determinanti i monologhi di Manico e Ferrari, capaci di tenere testa al loro intento di raccontare per quadri il tormento del vivere estranei a se stessi, uomini e donne inconcludenti, automatizzati, depersonalizzati, come assorti in un vuoto, fino alla fine della performance, nella continua confusione del dire e fare.
Due ricerche necessarie, insomma, due punti di vista intensi, dall’andamento irriverente e molto, molto coraggioso.
Nel primo caso, ripercorrendo alcune caratteristiche dell’esperienza addirittura morfologica e che determina dinamiche nelle future “culture” relazionari tra i sessi, il Collettivo Opera di Polvere indaga una finzione pericolosa, destinata, una volta perduto il paradiso di ogni inizio, a produrre bruschi cortocircuiti.
Sara Catellani e Francesca Pellanda, intense ed eleganti, vestono i panni di due forzature ridotte a una derivazione della favola di Cappuccetto Rosso. Le bambine-donne interagiscono in modalità carillon, segnando il loro percorso intorno a una casa di bambole, tendendo fili che diventano rete, nido e trappola, una serie di implicazioni difficili da negoziare e che attendono il loro riconoscimento senza enunciarlo. Luci e ombre sono sollecitate dalla qualità del movimento che Catellani e Pellanda non abbandonano, in barba a un minimalismo fin troppo prudente e che negli ultimi anni ha svuotato la scena di storie e derivati. In questa prospettiva, “Ni(ti)do” si impone con una sua generosità evidente frutto dell’incontro di due danzatrici ispirate, di formazione italiana ed estera.
Due linguaggi coreografici e un obiettivo multidisciplinare che in “Ni(ti)do” si avvale del video diFrancesco Domenico D’Auria e Walter Magri oltre alle scene di Massimo Corsini e Gabriele Bosio.
La domanda che il Collettivo pone allo spettatore riguarda i luoghi e il tempo. “Cosa significa oggi, per una giovane donna, crearsi uno spazio sicuro?”, ed è una domanda che ha radici nella biografia, geograficamente movimentata, delle due giovani danzatrici da tempo proiettate lontano dai loro nidi d’origine, Francesca Pellanda è tra gli artisti italiani che vivono sotto il cielo di Berlino. Ma basti pensare al mestiere itinerante del performer per farsi un’idea di mobilità ancora diversa, e più invasiva, di quella cui il mondo del lavoro ha costretto l’ennesima generazione perduta di trentenni italiani. Il senso di “Ni(ti)do” non è lontano da questa dualità ontologica tra aspettative (indotte) e modi di vivere, adattamenti. Il sequel quasi naturale di questo ragionamento è parso, in scena, a Lecce, “Campioncini”, provocazione sulle conseguenze di questo adattarsi umano e disumano. E il dibattito, imbastito dal Collettivo Pirate Jenny, va al di là degli interrogativi generati dalla reciprocità di maschile e femminile, ne sottolinea le dissimmetrie ai limiti del patologico attraverso il ricalcare certi canoni perfettini. Non a caso il Collettivo Pirate Jenny prende il nome dalla canzone scritta da Bertolt Brecht per l’Opera da tre soldi. Il teatro-danza è la dimensione che muove il linguaggio irresistibile di Davide Manico ed Elisa Ferrari, figli di un guizzo che non può non far pensare a un impegno preso con la complessità del contemporaneo, la scena stessa delle nostre vite incrinate dal continuo tetris delle tragedie moderne, cerchi di confronto pericolosi nei quali il corpo è chiamato a resistere come un’altra utilitaria. Un’utilitaria che si pronuncia però attraverso i testi di Annalisa Manico e lo stesso Collettivo, testi che costituiscono una risorsa per lo spettatore e che sollecitano ragionamenti ben equilibrati sul filo di lama di un sarcasmo pungente. Per Davide Manico, la parola in scena non è solo un supplemento del corpo, ne deriva la sua dimensione creativa che oggettivizza la priorità di un diritto che l’intero mondo delle Arti in questo Paese sembra aver dimenticato, è la cara vecchia lezione del Cinema Neorealista, delle Commedie all’italiana, dei capocomici capaci di scandagliare il Costume e farne una condizione prima, Pop, del riconoscimento elementare delle qualità (e non) dell’uomo/Ken e della donna/Barbie che hanno finito col guadagnarsi la cacciata dal Paradiso terrestre per aver dimenticato di calcolare le calorie di un pasto.
Determinanti i monologhi di Manico e Ferrari, capaci di tenere testa al loro intento di raccontare per quadri il tormento del vivere estranei a se stessi, uomini e donne inconcludenti, automatizzati, depersonalizzati, come assorti in un vuoto, fino alla fine della performance, nella continua confusione del dire e fare.
Due ricerche necessarie, insomma, due punti di vista intensi, dall’andamento irriverente e molto, molto coraggioso.
Campioncini di felicità sintetica, Davide Manico finalmente a Lecce.
3\08\2011 - servizio a cura di Futura Tv
www.futuratv.it

Due performance incredibili, divergenti, eclettiche in uno scenario incantevole, quello del teatro romano che ieri sera ha ospitato la Rassegna nazionale di Coreografie d’Autore Fiori di Testa 2011. La serata si apre con la performance Ni(ti)do del Collettivo Opera_di_polvere, portata in scena dalle danzatrici contemporanee Sara Catellani e Francesca Pellanda.Segue il physical theatre del Collettivo Pirate Jenny con il progetto Campioncini, una lettura ironicamente profonda e cinicamente reale del contesto sociale contemporaneo.
L’uomo del ventesimo secolo magistralmente descritto dal regista e coreografo Davide Manico. “Iperstimolato, iperottimista. In caso di eccessivo entusiasmo spegnerlo e riavviarlo. Spegnerlo con una citazione di Dostoevskij e riavviarlo con una semplice sessione di fitness.”
Servizio di Laura Fiore
Io voglio che tu sia/ I want you to be
(about "Hegel's holiday (low cost)" by Davide Manico
20\02\2011
www.danceme.org

"Però il bambino, il bambino non ci crede...", in questo assunto ripetuto da voci infantili che diventano colonna sonora c'è l'ammissione di umana fragilità di cui si sostanzia "Hegel's Holiday (low cost)", la performance che Davide Manico ha portato in scena lo scorso 19 febbraio nell'ambito del progetto DanceMe. Un lavoro che segue e si lascia ispirare dal precedente "I pong" di Paola Ponti, l'artista che ha continuato a dialogare con Manico in maniera proficua confrontandosi con la grammatica del video oltre che dei gesti. Misurarsi con le conseguenze di questi stimoli vuol dire leggere la congiuntura storica del qui e ora, seguire Manico in scena vuol dire misurarsi in quanto spettatore con le difficoltà della sua ricerca: definire un disagio attraverso la tenerezza.
E stranamente è proprio la tenerezza a decantare tutta la questione. C'è una concatenazione tra soggetto e situazione, ed è un sorprendente alfabeto d'infanzia in grado di trascendere l'ostacolo - che sia l'oggetto, lo stato d'animo, il pretesto, il sogno - al punto da renderlo alimento di immagini, generatore di ritmi, germe di idee, toni per camaleonti. Bicchieri di plastica disposti in scena in modo tale da raccogliere gocce di pioggia sonore, una sorta di diaframma, di resistenza contro la perdita. Gli stessi bicchieri legati alle estremità di palloncino all'elio, sembrano ceste di mongolfiere minuscole e forse telefoni senza fili quando il performer in scena se ne serve come una conchiglia appoggiata all'orecchio, per sentirci meglio. La dialettica di Manico è nella sua capacità di riformulare i dati, reinventare la matematica.
Altra matematica, qualunque essa sia, assunta nella forma del corpo, delle mani, del viso, del respiro, della cospirazione degli oggetti in scena. Il destino singolare degli oggetti che entrano in relazione con il performer-coreografo-regista è quello del Volo ut sis, io voglio che tu sia.
Il far essere comincia con un assenso, come il bambino che per sua stessa natura è onnipotente un istante prima di scoprirsi fallibile, vigliacco, disincantato, Manico è un fabbricatore di illusioni. Ed è da queste illusioni che arriva la ventata tragica più generalmente conosciuta come sospetto, dubbio. Il sospetto, il dubbio che qualcosa non quadri, che il meccanismo sia inceppato in un suo snodo vitale, che il problema sia risolvibile ma solo attraverso un compromesso, che la gioia sia il germe di una gravità immediatamente successiva al picco emotivo.
E' il tema, il grande tema, di ogni giovinezza che trascolora incubando già tutte le età, è la ricerca di un rifugio nel mondo attraverso l'unico senso possibile: quello del gioco, del doppio, la dissimulazione di ogni paura, l'esorcismo di ogni amore, la caricatura di ogni passione, speranza. Manico non fantastica su nessuna redenzione possibile, la sua ricerca ha radici nel profondamente umano, fare il fuoco con quello che si ha, a mali estremi. E così lo scheletro di un ombrello si trasforma e diventa una strana struttura, forse un cappello, che veste e ingabbia, come la sostanza stessa - a un tratto visibile - dei pensieri in loop. Come lui stesso ha dichiarato, c'e' in "Hegel's holiday (low cost)" un esplicito riferimento a Magritte. E' un'idea germinata a partire da uno dei tanti suggerimenti che il metodo del socialnetwork consente, link by link.
Ed è curioso prendere in analisi il titolo di questa terza performance di DanceMe che ha visto lavorare insieme Davide Manico, Isobel Blank e Giulio Escalona. Hegel giustificava la realtà, Magritte ne dubitava. In tal senso è efficace la sequenza coreografica che vede Manico reagire ai movimenti imprevedibili dei palloncini all'elio, così come prima di lui Paola Ponti aveva fatto con le palline da ping pong lanciate in scena.
In quel sottotitolo, poi, "low cost", c'è l'intenzione del lavoro di Manico, particolarmente attento alle sfumature della vita contemporanea, e critico sull'opposizione sensibilità-intelligenza al punto da rappresentare la reazione che ne deriva. Nel materiale della sensazione confluisce il vissuto continuo, quello oggettivo e quello soggettivo, quello evidente e quello invisibile. Seguendo questa linea interpretativa si arriva a un'apertura verso l'interno, un imbuto a rovescio che immette dentro il sistema integrato coscienza-mondo ma non più in una maniera intellettuale bensì come residuo assolutamente irrazionale, una struttura a strati di cui Manico si spoglia in scena - non solo in senso lato ma proprio per il tramite dei pantaloni sfilati via, così come le scarpe, la camicia - per mettere in evidenza il suo doppio che si scontra coi limiti oggettivi dello spazio e delle promesse, è la sequenza del muro, forse una tra le più suggestive di Hegel's holiday - imprevedibile - che dice molto su un'altra polarità fondamentale, quella superficie/profondità, autenticità/inautenticità (il sorriso finto da ballerino di tip tap che appare sul volto di Manico in uno dei passaggi cruciali della performance). Non a caso Hegel's holiday si apre con un video della performer Paola Ponti, magistrale nelle sue intuizioni, in cui le palline da ping pong sono rossi d'uovo, gusci che filano tane ed anche - soprattutto - spettatori che ridono.
Il lavoro e i successivi contributi della Ponti hanno ispirato Manico ben oltre ogni aspettativa - in fondo è il senso del progetto crossmediale in corso sulla piattaforma - germinando una generosa mescolanza di linguaggi e generi. Il multi-anima è la cifra di questo terzo atto, vuol dire sentire più cose, indagare più livelli, popolare gli intervalli tra un sogno e l'altro, ritrovare il filo delle immagini che Davide Manico, Isobel Blank, Giulio Escalona hanno condiviso e trasfigurato: la celebre sequenza del tip tap sotto la pioggia di Gene Kelly in Danzando sotto la pioggia ("volevo essere Gene Kelly ma..." recita il doppio di Davide Manico in scena reggendo una nuvoletta da fumetto vivente), il mondo di sogno di Karel Zeman, le varie dissertazioni sull'ombrello che Davide Manico apriva per un istante durante I Pong e che ha finito col portarsi appresso e sviluppare per Hegel's Holiday, la tessitura di una tana, la metà di un guscio d'uovo, Chaplin e ancora e ancora.
Punti di vista differenti, orchestrati per la prosecuzione, l'ampliamento. Un flusso di coscienza personale e collettivo, l'opera di un gruppo e di uno solo, estesa proprio sui discorsi interrotti. Ed è proprio in questa interruzione che Manico trova e ci fa osservare la poesia.
Luisa Ruggio
L'arte è un mestiere
ritratto di Davide Manico
a cura di FuturaWebTv (gennaio 2011)

- Per lei cosa significa essere un coreografo, un danzatore e un regista?
Non lo so, sarei presuntuoso se fossi certo del loro significato. Posso dire che tutto nasce da una scelta precisa, ovvero uno non fa il coreografo perché oramai troppo vecchio per fare il danzatore, bensì sceglie di farlo. Poi, nonostante le scelte, io mi sono ritrovato danzatore mio malgrado, per necessità: non avendo infatti i mezzi economici per pagare altri danzatori ho dovuto ripiegare sul mio corpo che non è affatto il mio corpo ideale. Ho iniziato a danzare tardissimo e sin dal primo anno di accademia ero più affascinato dalla composizione e dalla regia. L’arte della composizione coreografica è una delle forme d’arte più crudeli. Lo strumento di cui dispone il coreografo è il corpo di un essere umano, un soggetto pensante, complesso, ribelle, giudicante. Il corpo di un danzatore è un campo di battaglia, è un manuale di resistenza al dolore, uno strumento che a differenza di una tela e di un pennello ha bisogno di cooperare nel processo creativo, di essere parte attiva e non sempre il miracolo avviene. Essere coreografo vorrebbe dire saper disporre di un corpo moltiplicando e amplificando i processi di significazione, vorrebbe dire accettare la volatilità di una forma d’arte mai uguale a se stessa (la performance dal vivo cambia di ora in ora, di prova in prova, l’opera non è mai finita a meno che non si tratti di videodart). Uso il condizionale perché al di là dei grandi paroloni sull’estetica della danza, è impossibile dare una definizione univoca di un creativo.
- E cosa pensa dei coreografi? C'è qualcuno tra i suoi contemporaneai che considera geniale?
La mia generazione è in fermento, in Italia ci sono giovani coreografi interessanti anche giovanissimi. Se penso al genio tuttavia mi viene in mente il solito nome: Pina Bausch. Ho avuto la fortuna di conoscerla, di studiare la sua tecnica in modo così ossessivo da dovermene addirittura distaccare per eccesso di dipendenza. Vedere dal vivo Cafè Muller è stato come essere travolti da un tir, non c’è scampo. È un opera perfetta, forse la punta più alta della danza del 900. Poi ci sono coreografi contemporanei maestri della composizione coreografica come Alain Platel, Wim Vandekeybus, Sacha Waltz, Anne Teresa De Keersmaeker, Rui Horta, Jean-Claude Gallotta, Jerome Bell, Dave St.Pierre, Jan Fabre, i californiani Casebolt & Smith, e infine tutta una serie di compagnie indipendenti che operano in europa e che sono esempi di straordinaria bravura. Un’altro genio della performance è Marina Abramovic, che pur non provenendo dalla danza ma dall’arte visiva, ha un linguaggio assolutamente coreografico. Quando penso a un genio penso anche a Nijinsky il quale all’inizio del 900 ci ha dato una lezione di coraggio: la sua Sagra della Primavera è un punto di non ritorno. Quando il senso di inadeguatezza mi soffoca penso a quest’uomo che, appena ventenne, inventa senza saperlo la danza contemporanea, piango un po’ e poi mi sento meglio…
- Lei ha severamente criticato gli artisti che lavorano gratuitamente, crede che questo sia un errore di metodo (italiano) o di genere (succede solo in certi ambiti lavorativi)?
Un mix di entrambe. Si fa fatica a far capire che l’arte è un mestiere, che il concetto di artista bohemien squattrinato e felice è del tutto superato, che il prodotto culturale esige tempo e denaro in tutte le fasi di produzione e organizzazione. In alcune regioni italiane, si sa, manca una politica culturale che tuteli l’artista, per questo molti miei colleghi pur di performare accettano ingaggi gratis e addirittura rimettendoci proprio denaro. In Lombardia a un giovane coreografo può capitare di pagare centinaia di euro per partecipare ad un concorso coreografico, nonostante i fondi pubblici erogati agli organizzatori dei festival. Nell’ambito della danza il problema è assolutamente amplificato. I danzatori, nel migliore dei casi, sono pagati la metà rispetto ai musicisti. A detta di molti ad un danzatore deve bastare la gloria di potersi esibire e nutrirsi del sacro fuoco dell’arte. È ridicolo.
- Quanto è diverso oggi dal Davide Manico che ha firmato i primi lavori ("La speranza è un essere piumato" e via elencando) e che effetto le ha fatto formarsi lontano da casa?
Oggi rispetto a ieri ho migliorato la tecnica compositiva, ho scoperto come promuovermi, come sfruttare le infinite possibilità della rete dal punto di vista creativo, tuttavia rispetto agli esordi sento di aver perduto un po’ di coraggio, quella sana incoscienza che mi rendeva forte senza saperlo. Oggi dedico troppo tempo a pensare come confezionare un prodotto che sia autosufficiente nelle mani dello spettatore e questo a scapito del piacere nudo e crudo di fare poesia attraverso il corpo. Il mio ultimo lavoro indaga proprio questo aspetto involutivo del mio mondo, del mio essere trentenne. Spesso mi capita di rimpiangere quell’ingenuità iniziale. In più, lavorando da solo nell’ultimo anno, sento la mancanza del lavoro di gruppo che connotava i miei primi progetti, di quell’energia che il mio corpo da solo non riesce a dare.
Se per formazione si intende lo studio accademico e il perfezionamento, penso sia stata la cosa migliore vivere lontano da Lecce. Ma se per formazione si intende anche l’esperienza sul palcoscenico, l’opportunità di imparare creando il mio lavoro, ecco da questo punto di vista avrei voluto essere più presente sul mio territorio. A parte qualche evento estivo non ho mai portato in scena una mia creazione in un teatro salentino. Non ho mai provato la sensazione di avere i miei parenti in sala. Ecco perché mia nonna si illude di potermi un giorno vedere da Maria de Filippi. È frustrante, ma non ho perso le speranze.
- La gente capisce quel che ha tentato di dire con i suoi lavori?
Gli addetti ai lavori dicono che i miei progetti coreografici sono Pop. In effetti, io ho scelto un linguaggio apparentemente elementare, una modalità di presentazione a volte trash, un lessico da varietà televisivo. Non mi vergogno ad ammettere che la tv è la mia prima fonte d’ispirazione, e soprattutto è il modo più semplice per attirare l’attenzione dello spettatore medio e portarlo nella mia trappola, per portarlo ad un livello di lettura più complesso affinché egli si possa riflettere in qualcosa di disgustoso e imparare gradualmente a fare autocritica. Sono cosciente della presunzione di voler cambiare i punti di vista degli altri. Sono attratto perversamente dallo sguardo dello spettatore mediocre, è il mio bersaglio preferito, ne sono ossessionato. I non addetti ai lavori in realtà non mi trovano per niente Pop, a volte si sforzano di interpretare ciò che dico, fanno fatica, chiedono, mi scrivono, poi capiscono che ciò che conta è che loro, attraverso le mie suggestioni, si facciano delle domande e non si diano delle risposte.
- Cosa desidera raccontare quando è in sala prove?
Forse raccontare non è il termine più adatto alla danza che per sua natura evoca e non descrive. Quando sono in sala prove mi sforzo di creare micro episodi, composizioni plastiche, fotografie tridimensionali che siano più polisemiche possibile. Il corpo è la materia essenziale. Le metafore, il linguaggio onirico, la deformazione della realtà, il riso, i contrasti sono tutti mezzi fortissimi per il loro potere di creare connessioni emotive profonde nella mente di chi vive l’esperienza performativa come spettatore.
- A che cosa sta lavorando in questo periodo?
Attualmente sono performer in Danceme, un progetto cross-mediale che sviluppa le dinamiche della creazione su una piattaforma molto simile ad un social network( www.danceme.org). È un’esperienza che mi sta arricchendo moltissimo perché mi da la possibilità di lavorare con videomaker, critici, performers e musicisti dislocati in tutta Europa. In più vi è una democratizzazione del processo creativo che per la prima volta permette all’utente qualunque del web di interferire nelle fasi della composizione. È un progetto che richiede di rinunciare all’egocentrismo dell’artista e di saper cooperare attraverso il dialogo. Sul fronte della mia compagnia, sto lavorando a Peep-Show (merry crisis and a happy new fear), un nuovo progetto in finale al premio Equilibrio a Roma. Si tratta di un solo in cui provo a riflettere sulle mie fragilità di trentenne sociopatico. Grazie alla studio28dancefactory, ho in cantiere il progetto Metrosexual, in cui vorrei riflettere sulle declinazioni di identità sessuale in relazione alla città. Con la mia collega Elisa Ferrari sto scrivendo un format sui temi legati alla danza per studio28.tv . Infine con i miei studenti in accademia (Mas-Milano) porto in scena tre laboratori di ricerca coreografica, uno dedicato alla diversità, un altro all’opera del giovanissimo fotografo Federico Forlani e l’ultimo sulla riscrittura della favola di Biancaneve dal punto di vista della regina cattiva.
dal Quotidiano - 21 Luglio 2008

La fuga dei danzatori dal Salento è silenziosa, uno slalom che li porta lontano, nella Milano che mantiene le promesse disattese dal Sud. La Cenerentola delle arti non concede miracoli, soprattutto in un territorio dove la danza è solo una fitta geografia di scuole più o meno accreditate ma la produzione di spettacoli, in senso vero e proprio, non è contemplata. Ci sono realtà che fanno eccezione, anche se la Danza non è solo Il lago dei cigni. La politica tersicorea è ancora un miraggio per tutti quei danzatori che vorrebbero tornare, insieme al clan dei cervelli.
In cima alla lista c’è Davide Manico, giovanissimo coreografo e ballerino che in questi giorni rappresenta il Salento alla Biennale di Venezia sezione Danza. Non è un primato da poco se si pensa che Ismael Ivo, direttore artistico della kermesse, l’ha preso sotto la sua ala per un percorso di ricerca coreografica che punta a una nuova drammaturgia della danza contemporanea.
A ventinove anni, Davide Manico ha fondato una compagnia di arti performative, un percorso segnato dall’incontro diretto coi protagonisti storici del Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch. In questi giorni il debutto in laguna col progetto “Choreographic Collision Part 2”. La “Bellezza” ha ispirato questa nuova composizione coreografica che vanta la collaborazione col regista e virtual designer Lutz Gregor, il musicista e compositore Paki Zennaro e la supervisione di Viviana Paulucci di “DanzaVenezia”.
Il Salento non può essere solo pizzica, c’è un salentino a Venezia che fino al 25 giugno prossimo ( al Future Centre/Campo San Salvador) intende dimostrarlo.
“Il 6° Festival Internazionale di Danza è un’occasione unica, ma il mio sogno resta quello di danzare per la mia terra, di cui sono ambasciatore in Biennale”.
Un Billy Elliot salentino che rientra a pieno titolo nell’eccellenza di un territorio che sforna artisti di razza ma se li lascia scappare, l’ennesimo nemo propheta in patria.
Il 19 giugno scorso, Davide Manico ha incantato un pubblico dal gusto europeo, resta in cartellone fino al 25 con un’opera che segue ai successi di “Alice Underground” (lo spettacolo di teatro danza con orchestra d’archi che lo vide collaborare con l’Accademia delle Belle Arti di Brera e il Conservatorio Verdi di Milano) , “Violetta e altre Traviate” promosso dal Teatro Giuditta Pasta di Saronno e “La speranza è un essere piumato”. Lineamenti mediorientali, una levità impossibile e un temperamento creativo che lo hanno reso in pochissimi anni la giovane promessa della Danza Contemporanea italiana, stendardo di un Salento che deve ancora imparare l’arte di essere madre e non matrigna con i suoi figli migliori.
Luisa Ruggio
D.o.C - CollettivoPirateJenny
- festival Play With Food - 2011

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